camilla mazzanti

La curiosità è amplificare la voce di ciò che solitamente rimane silenzioso

Musicista sinfonica ed esploratrice del regno fungino, Camilla Mazzanti con Fungotropia racconta la forza gentile della curiosità: cambiare prospettiva, accettare l’incertezza, intrecciare relazioni come un micelio tra natura e suono

Due anime che si parlano: natura e musica. Tra boschi e partiture, Camilla Mazzanti, fungarola e musicista, coltiva un diario d’apprendimento che trasforma la paura in permesso creativo e la curiosità in comunità. L’abbiamo incontrata sul principiare dell’autunno, quando il suo progetto – Fungotropia, una newsletter dove i funghi diventano una lente per guardare il mondo “dal basso verso l’alto” – compie un anno. Uno sguardo, il suo, che ci insegna a immaginare più in grande. La sua, è la quarta storia di Talea, il progetto editoriale di Vite Storie di Vino e di Donne che raccoglie storie belle per rifiorire.

Camilla Mazzanti è una violinista della Filarmonica Toscanini di Parma. Ed è una grande appassionata di funghi. L’ascolto allenato in orchestra, per lei, si traduce nel bosco in attenzione al dettaglio, ai ritmi lenti, alle relazioni invisibili. Dedizione, disciplina e relazione, elementi centrali nella musica, ritornano anche nell’osservazione dei funghi: il micelio come partitura nascosta, l’osservazione come esercizio quotidiano. E così anche l’immaginario sonoro si apre, con le tante voci che Camilla raccoglie e ogni mese riporta nella sua newsletter. Due mondi che non si sommano, ma si fecondano a vicenda. “In fondo” ci dice, “anche la musica nasce dallo stesso impulso della vita fungina: il desiderio umano di celebrare la propria presenza e di esprimere la propria relazione con ciò che lo circonda.”

La curiosità come una bussola per orientarsi nel bosco come nella vita

Tutto ha inizio dopo il Covid, con un ritorno alla natura che per Camilla diventa una pratica quotidiana di cura e di consapevolezza di sé: le sue passeggiate nel bosco diventano veri e propri rituali, dove anche guardare il succedersi delle stagioni affina il senso dei tempi lunghi, del ciclo vita-decomposizione-rigenerazione che i funghi incarnano. “Mi sono accorta che è stupendo poter ammirare il susseguirsi delle stagioni e ho scelto di non farne mai più a meno”. Vive ancora in città, ma ha allenato lo sguardo ai piccoli segni che la natura porta sempre con sè: un profumo, un colore, un fungo che fa capolino al fianco di un albero. A guidarla, la sua curiosità. Un’attitudine che la spinge a uscire, osservare, fare domande e a collegare i funghi a geografie, culture e biografie: “Nel mio zaino da esploratrice la curiosità non manca mai”. Così un incontro casuale nel sottobosco si trasforma in traccia, confronto e apprendimento continuo, alimentando una mappa sempre più ricca di conoscenza e di relazione. “Lo smartphone è il mio taccuino visivo, ma anche uno strumento di condivisione con chi è più esperto di me e a cui chiedo pareri e confronti”. 

La paura di “non essere all’altezza”, il permesso creativo e la forza della condivisione: come nasce Fungotropia

In questi giorni, Camilla festeggia il primo compleanno di Fungotropia, la newsletter che ha iniziato a scrivere per tracciare connessioni tra il mondo dei funghi e il nostro mondo. “Non è solo una tappa importante o un brindisi da ricordare: è la prova che la curiosità, resa pratica e condivisa, può generare comunità. Un brindisi che celebra il coraggio di iniziare, l’umiltà di imparare e la gioia di una comunità che cresce come un bosco”. Per arrivare a pubblicare il primo episodio, il percorso non è stato facile. Come spesso accade, anche per lei il sentirsi non all’altezza è stato una soglia da attraversare. “Mi chiedevo: ma chi sono io per parlare di funghi?”. Ma per lei condividere è far circolare idee capaci di generare altre idee. E supera questa paura che la blocca, pensando a cosa farebbe se fosse un fungo. “Ho pensato al micelio, che è ciò da cui un fungo nasce, cresce, si nutre e comunica con gli altri funghi. Il micelio cresce sempre per contatto e diventa scambio, reciprocità”. 

I funghi appaiono e scompaiono, costringono a sospendere il controllo e a coltivare presenza, pazienza, meraviglia

Così, decide di aprire uno spazio diverso, e tutto suo: una newsletter-diario per imparare insieme al suo pubblico, senza cattedra, accogliendo il processo e l’errore. “Mi sono concessa la possibilità di utilizzare Fungotropia come progetto creativo, un diario di appunti di qualcuno che sta imparando e che vuole condividere con altre persone che, magari, sono su un percorso simile e sono curiose di scoprire”. La paura non scompare, ma viene incanalata e così attiva relazioni nutrienti. Uscire dai confini della propria formazione non è facile, ma Camilla riesce pian piano a creare un ecosistema intergenerazionale e appassionato tra fungaioli, micologi, artisti, autori. O semplici persone curiose come lei. Gli scambi online prolungano il bosco nello spazio digitale e fanno emergere connessioni inedite. Il risultato è un capitale relazionale che alimenta tanto il progetto quanto le persone che ne fanno parte. Proprio come un fungo con il suo micelio!

camilla mazzanti

Cambiare prospettiva: guardare in basso per immaginare in grande

La prossima volta che vi troverete a camminare in un bosco, fateci caso. Di solito, tendiamo a guardare verso l’alto, per cercare la luce e il cielo tra gli alberi. Non certo sotto ai sassi o tra le radici (a meno che non stiate andando proprio per funghi!). L’esercizio di curiosità che propone Camilla è proprio quello di spostare lo sguardo, dalle cime al sottobosco, per immaginare cose diverse. La cosa più sorprendente è quella che lei, nel raccontarsi a Talea, chiama epistemologia dell’incertezza: “i funghi appaiono e scompaiono, costringono a sospendere il controllo e a coltivare presenza, pazienza, meraviglia”, dice Camilla. Questo ribaltamento di prospettiva diventa un allenamento creativo: imparare a vedere ciò che è marginale, umile, nascosto e farne una fonte di senso. “La sorpresa è parte del gioco e plasma uno sguardo più elastico”. I funghi sono un promemoria della transitorietà: fioriscono e svaniscono rapidamente, abitano il confine tra vita e deperimento, trasformano ciò che muore in nutrimento. Nel folklore europeo diventano messaggeri del tempo che scorre, tra incanto e inquietudine. “Sbucano all’improvviso, restano lì pochissimo e poi spariscono, come a ricordarci che nulla dura per sempre.” Questo sguardo aiuta a fare pace con il cambiamento: nulla è per sempre e proprio per questo ogni apparizione va accolta con gratitudine.

dazi sul vino guida facile

I dazi sul vino spiegati facile

Quali sono gli effetti dei dazi americani sul vino sull’economia italiana e sulla vita delle donne? Un’analisi semplice, ma approfondita, per capire le conseguenze su prezzi, produzione e consumi

In questo momento, le artigiane dell’uva trattengono il fiato. E, con loro, anche l’economia globale. L’aumento dei dazi sul vino al 15% (ora sono al 10%, ndr) alla fine è arrivato. E, anche di fronte al crollo delle borse, la volontà del governo americano di procedere sulla sua linea ha lasciato un intero settore con la domanda: e adesso che succede? Per capire quali sono gli effetti dei dazi americani sul vino sull’economia italiana e sulla vita delle donne, abbiamo coinvolto le economiste e ricercatrici Federica Gentile e Giovanna Badalassi di Ladynomics e le artigiane dell’uva Erika e Giorgia Marchesini – il cui fatturato conta per il 20% sul mercato statunitense – e abbiamo chiesto loro di raccontarci le conseguenze che vedremo nei prossimi mesi su prezzi, produzione e consumi, e le preoccupazioni di chi lavora in questo settore.

Cosa sono i dazi sul vino?

I dazi sul vino sono tasse che vengono applicate ai vini importati da altri Paesi. Si tratta, in estrema sintesi, di un contributo economico che chi importa vino deve versare alle autorità del Paese di destinazione. Ma perché esistono? I dazi hanno tre finalità: proteggere le industrie locali, regolare il commercio internazionale e anche per aggiungere entrate fiscali nelle casse governative. L’ammontare di queste tasse doganali può basarsi sul valore del vino, su un’aliquota standard o su una combinazione di entrambe. Ma alla fine, il risultato è sempre lo stesso: il vino importato costa di più una volta arrivato sugli scaffali.

Perché allora tutto questo allarme per l’aumento annunciato da Trump? Perché un aumento di quasi il doppio di queste tasse porterebbe disagi tangibili non solo per i produttori italiani – l’Unione Italia Vini ha stimato un danno di 323 milioni di euro all’anno per i vini italiani e oltre 360 milioni di bottiglie coinvolte – ma anche per le consumatrici e le imprenditrici vinicole su entrambe le sponde dell’Atlantico. I dazi infatti non riguardano soltanto la bottiglia finita, ma anche le componenti che i produttori e le produttrici americane acquistano dalla Cina e dal Messico, prime fra tutte bottiglie, capsule e tappi. Le più penalizzate sarebbero le cantine più piccole e con produzioni artigianali. Perché, come spiega molto bene questo articolo del New York Times, i vini che oggi arrivano sugli scaffali a un prezzo accessibile ne risentiranno più di quelli costosi che già oggi può permettersi solo la fascia più ricca della popolazione.

Perché l’aumento dei dazi americani interessa di più le donne?

All’aumento dei prezzi, calo della varietà di prodotti disponibili e una distribuzione del vino sempre più complessa, si aggiunge anche la grande incertezza generata da questa politica commerciale che, se anche solo annunciata, sta già portando a meno investimenti, a nuove difficoltà per le esportazioni e per le cantine italiane. “L’incertezza legata all’imposizione o sospensione dei dazi riduce gli investimenti e spinge alla crisi economica, colpendo le donne in settori dove il lavoro è già precario“, ci dicono Federica Gentile e Giovanna Badalassi di Ladynomics. Sempre grazie a loro impariamo il concetto di Pink Tariffs, cioè quel “prezzo” che le donne si trovano sempre a pagare in situazioni di crisi economica. Che si tratti infatti di essere le principali responsabili della spesa famigliare o di gestire un’azienda vinicole, le donne si trovano spesso in prima linea ad affrontare gli impatti di un’economia incerta e di nuove tassazioni.

L’incertezza legata all’imposizione o sospensione dei dazi riduce gli investimenti e spinge alla crisi economica, colpendo le donne in settori dove il lavoro è già precario

Sebbene infatti abbiamo visto come l’obiettivo dei dazi sia incentivare la produzione locale e limitare le importazioni, spiega Ladynomics, gli effetti reali raccontano una storia diversa: le donne sono da sempre tra le più colpite nei contesti di crisi economica e si trovano a fronteggiare difficoltà crescenti sia come consumatrici, sia come lavoratrici, soprattutto in un momento storico in cui, se mancano i soldi, colei che rinuncia al proprio lavoro per occuparsi dei figli è sempre la donna, poiché il suo è statisticamente lo stipendio più basso.

A livello macro, l’incertezza associata ai dazi riduce investimenti e causa stagnazione economica, colpendo soprattutto i settori dove le donne sono maggiormente occupate, come la ristorazione, la sanità, il settore tessile. Con una doppia conseguenza: “Secondo l’Overseas Development Institute (ODI), i dazi americani attualmente esistenti sono già adesso più alti su abbigliamento e accessori destinati alle donne rispetto a quelli maschili“, scrive Giovanna Badalassi in questo interessante articolo proprio sull’impatto dei dazi sulle donne. Non solo in occidente, ma in tutto il mondo: “Se le donne acquistano meno prodotti, soprattutto tessili e per l’abbigliamento, vanno in crisi le aziende che li vendono. La World Bank in questo caso è chiara: meno esportazioni, meno occupazione nei Paesi produttori, precarietà in aumento per milioni di donne nel mondo”.

erika giorga marchesini vino degustazione chiaretto

Cosa succede adesso alle produttrici vinicole italiane con l’aumento dei dazi sul vino?

Le piccole produttrici di vino soffrono due volte: è difficile farsi riconoscere in un settore dominato dagli uomini e i costi aumentati dai dazi limitano la competitività all’estero. La paura è che possa accadere quel che accadde nel 2019 al mercato francese dopo che la prima amministrazione Trump alzò i dazi sul al 25%. A risponderci è Erika Marchesini, artigiana dell’uva che si occupa insieme alla sorella Giorgia dell’azienda vinicola di famiglia a Lazise, sul Lago di Garda, e il cui fatturato dipende molto dall’export. “A spaventarci è proprio questa guerra dei dazi e quello che può portare. Quando c’è nell’aria un sentore di guerra, si entra in uno stato d’allerta che blocca l’economia. Se le persone hanno difficoltà ad acquistare i beni primari, figuriamoci se comprano del vino!”.

erika giorga marchesini vino degustazione chiaretto

La gestione dei dazi richiede infatti la collaborazione tra tutte le figure coinvolte nella filiera, ci spiega Erika, quindi sia loro come produttrici, ma anche le aziende importatrici e distributrici. L’obiettivo di questa strategia è quello di contenere i rincari al minimo. “Dividiamo la percentuale per far sì che il danno finale sulla bottiglia sia minimo, forse qualche dollaro, se non meno,” spiega. Tuttavia, sebbene l’attuale aumento sia meno di quello inizialmente prospettato, rappresenta comunque uno scenario davvero critico, che rischia di mettere a repentaglio anni di investimenti e di relazioni costruite una per una, passo passo. “Per non buttare all’aria tutto, stiamo garantendo al nostro importatore la presenza sul mercato, visitando i nuovi Stati che abbiamo ripreso come il New Jersey e New York. Siamo anche riuscite ad aprire nuovi canali con vini di fascia alta, che ci danno più ossigeno e forza per andare avanti.” Una strategia ben precisa che mantiene un occhio sempre rivolto al futuro e l’altro a terra, sulle vigne dove è appena iniziata la vendemmia verde. C’è speranza che questi segnali positivi possano portare nuove opportunità per consolidare anni di sacrifici e lavoro. “Già che partono i bancali è un buon segnale,” sottolinea Erika, che mantiene viva, a ogni costo, la volontà di crescere e restare competitive, “A prescindere da quello che succederà da oggi in poi“.

silvia giani emilia pennac vino naturale

Silvia Giani: “I miei vini raccontano la biodiversità dell’Oltrepò Pavese, ma soprattutto la felicità”

Questa è la storia di Silvia Giani, in arte Emilia Pennac, che fa vini naturali in Oltrepò, così come la racconta lei

Fare vini naturali in Oltrepò Pavese, una delle zone più vocate d’Italia, è una vera scommessa. “Ma fare vino per me è, da sempre, insieme stimolo e felicità”, ci dice Silvia Giani, in arte Emilia Pennac, mentre ci fa assaggiare i suoi pet nat, vini frizzanti rifermentati naturalmente in bottiglia ottenuti dalle uve autoctone del suo territorio. “La mia storia e la storia della mia azienda sono intrecciate, come i tralci delle mie viti sui filari”, dice. Era infatti il 1972 quando suo padre piantò il primo vigneto in mezzo ettaro di terra, perché voleva fare il vino per sé e per gli amici. “Così la mia infanzia ha avuto il profumo dei fiori dell’uva e il sapore del mosto e questo periodo felice mi ha segnata così tanto che dodici anni fa ho deciso: avrei fatto anche io, di questo, il mio mestiere“.

Prendi un sorso e senti la natura: perché fare vini naturali in Oltrepò

“La mia vigna non è molto grande, ma ciò che amo di lei è che non è un corpo unico, ma sedici appezzamenti in due comuni diversi”. Una particolarità, questa, che fa sì che l’uva crescendo su terreni differenti, le permette di scegliere negli anni il terreno giusto per il vitigno giusto. Ogni vigneto di Emilia Pennac Wines ha così la sua storia, la sua gestione e la sua cura, e ognuno di loro insegna e dà vini profondamente diversi tra loro.

La cosa più importante per Silvia è da sempre il mantenimento della biodiversità, che per lei è sinonimo dell’equilibrio generato dalla coesistenza di specie animali e vegetali. Per questo, sin da subito riduce al minimo ogni tipo di intervento, preferendo laddove possibile strategie e prodotti che stimolano la auto difesa della pianta, nel totale rispetto dell’agricoltura biologica. “La vigna è un modo di essere, il mio modo di essere. È fatica, sudore, passione, impegno, bellezza. Per me fare il vino è insieme stimolo e felicità, perché assecondo la natura e imparo. Poi, con cura, porto il sapere dalla vigna al bicchiere”.

silvia giani emilia pennac vino naturale

Fare vino vuol dire alzarsi alle cinque del mattino, con quaranta gradi all’ombra d’estate e potare con il ghiaccio d’inverno. È sentire la fatica nel bicchiere, è sacrificio e ostinazione, è pura bellezza guadagnata con le lacrime

Silvia è stata una delle artigiane dell’uva che hanno fatto parte della nostra associazione. Ora non ne fa più parte, perché ha smesso di fare vino e perché anche le cose belle a volte finiscono e bisogna saperle lasciare andare (ma non vediamo l’ora di riaffiancarla nella sua prossima avventura vinicola!). Grazie a lei e a quante che hanno creduto in noi, è nata l’idea di inserire in questa sezione del blog le storie delle donne che lasciano un segno nel mondo del vino e che, per un periodo o per un soffio, hanno lasciato il segno anche nel nostro.

giovanna rosanna caruso minini vini sicilia degustazione storia

Giovanna e Rosanna Caruso: “Ci piace sognare in grande e così facciamo il vino in Sicilia”

Questa è la storia di Giovanna e Rosanna Caruso, raccontata da loro. I loro vini sono freschi e sapidi, come il vento delle colline marsalesi su cui crescono le loro viti e il mare della Sicilia

Giovanna e Rosanna Caruso sono sorelle e insieme sono alla guida della cantina Caruso e Minini. “Portiamo avanti una tradizione di quattro generazioni. Lo facciamo con energia, con passione, nel rispetto della terra e con un occhio sempre puntato verso il futuro“. L’obiettivo che le muove, ci raccontano, è quello di coltivare e far fiorire l’eredità che ci è stata lasciata dal nonno Nino, viticoltore da generazioni che vendeva le sue uve ai produttori della zona di Marsala e sognava di avere un giorno una cantina tutta sua. “Poi, negli anni ‘90, nostro padre Stefano ha realizzato il suo sogno e ha fondato la nostra cantina. “A noi Caruso piace sognare in grande” dicono per raccontare di come nasce la collaborazione con Mario Minini, un produttore di vino di bresciano che accettò la scommessa di creare un ponte tra la Sicilia e il Nord Italia. “Una scommessa vincente che oggi abbiamo preso in mano con gioia“.

giovanna rosanna caruso minini vini sicilia degustazione storia

Tradizione e competenza, con uno sguardo al futuro

“Coltiviamo le nostre terre con amore e rispetto“. Giummarella e Cuttaia, questo il nome delle vigne di proprietà di Caruso e Minini, dislocate su un gruppo di colline a est di Marsala, non troppo lontano dal mare. Ogni porzione di terreno è stata scelta dai nonni, per creare la migliore combinazione possibile tra la vite, il clima e la terra. La cantina si trova in un antico baglio, edificato nel 1904 nel cuore della tradizionale area degli stabilimenti vinicoli di Marsala. Qui i grappoli vengono trasportati e subito trasformati. “Li lavoriamo con lo scopo di trasferire la nostra tradizione in bottiglia con meticolosità e sapienza, dando ai vini centenari della nostra zona un’espressione moderna e al passo con i tempi”. Che poi è la loro ed è questo a renderle delle vere artigiane dell’uva. Inoltre, questaparticolare posizione delle vigne, situate sulle colline marsalesi, poco lontano dal mare, dona ai loro vini leggerezza e sapidità.

“Amiamo coltivare uve di vitigni autoctoni delle nostre terre. Abbiamo scelto il Perricone perché è uno dei vitigni a bacca rossa più antichi della Sicilia, anche se oggi ne restano pochi ettari in tutta l’isola”. Soppiantato dal più commerciale Nero d’Avola, infatti, è un pezzo di tradizione che le due sorelle scelgono di valorizzare attraverso questo monovarietale in bottiglia. “Lo Zibibbo ha il colore dorato e il profumo speziato della Sicilia, lo abbiamo scelto perché rappresenta la nostra terra. E, infine, il Grillo vendemmia tardiva, ottenuto da uve che cogliamo a mano dalla pianta: ideale per accompagnare i dolci della tradizione siciliana”.

giovanna rosanna caruso minini vini sicilia degustazione storia

Giovanna e Rosanna Caruso sono state due artigiane dell’uva che hanno fatto parte della nostra associazione. Ora non ne fanno più parte, perché anche le cose belle a volte finiscono e bisogna saperle lasciare andare. Grazie a loro e a quante che hanno creduto in noi, è nata l’idea di inserire in questa sezione del blog le storie delle donne che lasciano un segno nel mondo del vino e che, per un periodo o per un soffio, hanno lasciato il segno anche nel nostro.

chiara ciavolich degustazione vino abruzzo storia

Chiara Ciavolich: “Faccio il vino per il solo piacere di farlo”

Questa è la storia di Chiara Ciavolich, raccontata da lei. I suoi vini sono lontani dai luoghi comuni, sono vini in divenire, senza certezze in tasca, che nei contrasti trovano un equilibrio personalissimo

Ho deciso ferocemente di fare solo questo nella mia vita“. Così Chiara Ciavolich, titolare della cantina a cui ha dato il suo cognome, inizia a raccontarci di sè. “Mi sono laureata in Giurisprudenza a Roma nel 2002 e, nelle più rosee aspettative di mia madre, avrei dovuto divenire avvocato. E invece no. Ho scelto di dedicarmi anima e corpo all’azienda agricola e alla cantina, lavorando a testa bassa per trasformarla da realtà produttrice di ottime cisterne di vino sfuso da vendere agli imbottigliatori regionali ed extraregionali, a realtà produttrice di bottiglie di vino con la vocazione dell’autenticità, dell’eleganza e della freschezza del nostro territorio, l’Abruzzo”.

Così, grazie alla storia della sua famiglia, Chiara inizia a fare il vino ispirata da una zia, Zia Giuliana, che gliela racconta sin da quando era in culla. “Grazie alla grandezza d’animo di un padre dalla genialità e spessore irraggiungibili; e all’eleganza e schiettezza di una giovane madre appassionata di arte, letteratura e botanica, oggi faccio il vino provando a trasportare nel futuro il patrimonio agricolo e culturale ereditato da una famiglia antica”.

chiara ciavolich degustazione vino abruzzo storia

Faccio il vino in Abruzzo e ho in mente un’etichetta per “il mio Montepulciano”

La prima cosa che Chiara fa quando prende in mano le redini dell’azienda di famiglia è di creare attorno a sè una squadra con cui condivide la stessa passione e determinazione. “Io sono l’ultima espressione di una famiglia antica in cui il vino ha fatto da filo, decisamente rosso, di congiunzione attraverso i secoli . I Ciavolich erano mercanti di lana che arrivarono nel 1500 a Miglianico e nel 1853 costruirono la prima cantina della famiglia, una delle più antiche strutture di vinificazione in Abruzzo”.

La sua volontà è quella di mantenere intatto un patrimonio agricolo, enoico e storico per tramandarlo alle future generazioni. Come? Il pensiero è di farlo in modo sostenibile per l’ambiente, per le persone che lavorano in azienda e per l’azienda stessa. “La nostra tenuta si trova a Paniella, abbiamo circa quindici ettari, di cui sei a Montepulciano d’Abruzzo e uno a Pecorino piantati a pergola abruzzese. Il resto è una larga distesa di olivi secolari, da cui produciamo ogni anno un olio tutto di territorio”. E il vino?

“Il mio Montepulcianino. Prima o poi lo chiamerò così anche in etichetta”. Per lei, ci confida, è il vino del futuro. Un vino slow, dal tannino morbido e vellutato, molto più spostato sull’eleganza che sulla potenza tipica del Montepulciano. “Un vino per svegliarti da un incubo che sembra non finire mai o, molto meglio, per addormentarti e ritrovarti nella più bella epoca della tua vita”.

chiara ciavolich degustazione vino abruzzo storia

Chiara è stata una delle artigiane dell’uva che hanno fatto parte della nostra associazione. Ora non ne fa più parte, perché anche le cose belle a volte finiscono e bisogna saperle lasciare andare. Grazie a lei e a quante che hanno creduto in noi, è nata l’idea di inserire in questa sezione del blog le storie delle donne che lasciano un segno nel mondo del vino e che, per un periodo o per un soffio, hanno lasciato il segno anche nel nostro.

chiara cane cantina fratelli ferro

Chiara Cane: “Faccio solo vini che mi assomigliano”

Questa è la storia di Chiara Cane, raccontata da lei. Nelle Langhe fa vini che le assomigliano: sono vini di carattere, appassionati e testardi, con una punta di dolcezza

Quando la incontriamo per la prima volta, siamo al telefono. Era ancora durante la pandemia e passerà un anno e mezzo prima di poterla incontrare dal vivo, in un banco d’assaggio sotto il sole caldo delle Langhe. Chiara Cane ci appare da subito corrispondente alla descrizione che ci fa di sè: “Sono una donna di carattere, a tratti impulsiva e passionale, testarda e determinata nel raggiugere gli obiettivi prefissati, ma nello stesso tempo dolce e altruista: un giusto equilibrio necessario nella vita come lo è in un buon vino“. E noi non potremmo essere più d’accordo.

Sono Chiara Cane e sono stata un’artigiana dell’uva

“Il gioco preferito di quando ero piccola era scorrazzare per le “capezzagne” insieme a mia sorella e ci divertivamo un mondo a imitare i nostri nonni che lavoravano la vigna. Crescendo ho intrapreso un altro percorso, mi sono laureata in Servizio Sociale e per un certo periodo il mio desiderio era di intraprendere un percorso lavorativo in questo settore”. Poi, Chiara conosce Andrea, enologo nell’azienda di famiglia, e decide di tornare sui miei passi. “Da allora, giorno dopo giorno, sotto la guida di Andrea e dello zio Pierino, ho potuto scoprire questo mondo magico ed elegante del vino, grazie alla loro passione per questo mestiere che lo trasforma in arte“.

chiara cane cantina fratelli ferro

Un mestiere che diventa arte grazie alla passione

Chiara e Andrea sono i titolari della cantina Fratelli Ferro, trenta ettari dislocati su quattro comuni nelle Langhe: Castiglione Tinella, Neive (CN), Costigliole d’Asti e Calosso (AT). Con il loro lavoro promuovono la valorizzazione del territorio nel rispetto della natura. “Oggi in azienda cerco di essere il più versatile possibile”, racconta Chiara,  “lavoro in vigna, contribuisco alla produzione del vino in cantina, e partecipo a fiere ed eventi. I colori, i riflessi della luce del sole che si nasconde dietro alle colline superbe delle Langhe, i profumi dell’uva che fiorisce, il sapore dolce degli acini maturi, sono parte integrante del mio vivere”.

Un approccio che si riflette anche nei vini di Fratelli Ferro, i tipici langaroli. “I miei preferiti sono i tre che rispecchiano maggiormente il mio carattere: il Nebbiolo, la Barbera d’Asti e il Grignolino. Il Langhe Nebbiolo D.O.C è il vino delle occasioni speciali, di colore rosso rubino con riflessi granati, fruttato e floreale, morbido e vellutato in bocca. La Barbera d’Asti D.O.C.G. è la signora indiscussa della nostra azienda, si presenta con carattere ed eleganza al palato, struttura e complessità, con equilibrio tra morbidezza e acidità. Il Piemonte Grignolino D.O.C. è un vino rosso fresco, delicato al primo impatto e più consistente man mano che scende in bocca, con note fruttate e speziate e la giusta dose di dolcezza e acidità”.

chiara cane cantina fratelli ferro

Chiara è stata la prima artigiana dell’uva langarola ad aver fatto parte della nostra associazione. Ora non ne fa più parte, perché anche le cose belle a volte finiscono e bisogna saperle lasciare andare. Grazie a lei e a quante che hanno creduto in noi, è nata l’idea di inserire in questa sezione del blog le storie delle donne che lasciano un segno nel mondo del vino e che, per un periodo o per un soffio, hanno lasciato il segno anche nel nostro.

giulia ciampolini guida galattica enostappisti newsletter vino

Va dove ti porta il… vino

Giulia Ciampolini è un’esploratrice del mondo del vino. Ogni mese la sua newsletter, la sua Guida Galattica per Enostappisti, accompagna le persone alla scoperta di qualcosa che prima non sapevano e ci insegna che quando decidiamo di fermarci alla prima impressione, spesso ci perdiamo tutto il divertimento

Ho iniziato a seguire Giulia Ciampolini – 32 anni da una manciata di settimane, sommelier, esperta di comunicazione digitale del vino e crossfit addicted – per il titolo della sua newsletter. L’ispirazione è chiara ed è il romanzo di Douglas Adams “Guida Galattica per Autostoppisti”, una storia che ho amato molto e grazie a cui non viaggio mai senza un asciugamano. Da quando seguo Giulia non viaggio mai anche senza apribottiglie, ma questa è un’altra storia. O forse no. Perché se c’è una cosa che mi ha insegnato quel romanzo è che, per quanto ci si possa sforzare, la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto non solo non può che essere (spoiler) 42, ma soprattutto non capirò mai il perché e va bene così. Nella sua Guida Galattica, invece, Giulia Ciampolini si e ci pone sempre un sacco di domande e ci regala un sacco di buone bottiglie come risposta. A lei, che di calice in calice ci ricorda che quando decidiamo di fermarci alla prima impressione, spesso ci perdiamo tutto il divertimento, abbiamo dedicato la terza puntata di Talea, il progetto editoriale di Vite che raccoglie storie belle per rifiorire.

Oggi il vino è il mio posto sicuro. Dove sento di potermi esprimere liberamente. 

Giulia, perché una newsletter sul vino?

Per gioco! È stato durante la pandemia. C’era ancora Twitter e lì un giorno una ragazza mi chiese di fare un post sui vini da acquistare online, per tutte le persone in zona rossa. Iniziai a pubblicare un vino al giorno su Instagram. Con la fine della pandemia dovetti tornare in ufficio, il mio tempo a disposizione si dimezzò e così smisi di pubblicare. Flashforward a un paio di anni dopo: conosco per caso la piattaforma Substack e penso che sarebbe figo trasformare quel tentativo in una newsletter sul vino che arriva una volta al mese. Volevo essere libera dal lunatico algoritmo che regola le logiche di Instagram e soprattutto esonerata dal dover impazzire per fare reel. C’è qualche esempio sul mio profilo Instagram abbastanza imbarazzante. Così ho iniziato a consigliare bottiglie – secondo me – meritevoli, link con articoli per esplorare il mondo del vino e raccontare le basi della degustazione per chi vuole capirlo meglio, una parola o concetto alla volta alle persone appassionate di vino, che ho chiamato affettuosamente “enostappisti”.

giulia ciampolini guida galattica enostappisti newsletter vino

Chi sono gli enostappisti e le enostappiste?

Onestamente non ne avevo idea fino a qualche settimana fa. Poi ho deciso di creare la Guida Galattica per Enostappisti 3.0, passando da una newsletter a un corso di approccio al vino un po’ atipico: così ho pubblicato un sondaggio, per capire il potenziale interesse di chi mi segue. Posso dirti, in base ai risultati raccolti finora, che tra il pubblico attuale ci sono alcuni sommelier, persone che conoscono il vino, ma anche tante persone che vorrebbero solo saperne di più. Un bel mix! 

Il vino per te è stato amore a prima vista?

Curiosità a prima vista, sicuramente. Poi abbiamo avuto un rapporto caratterizzato da alti e bassi. Ho incontrato il vino per la prima volta mentre scrivevo la tesi di laurea magistrale in Inghilterra. Non sapevo bene quale argomento scegliere, sapevo solo di voler parlare di Made in Italy. Un giorno, per caso, mi imbattei in un articolo del Sole 24 Ore in cui veniva menzionata la crescita del comparto in Italia. Era il 2015: scrissi la tesi sull’utilizzo dei social media da parte di Frescobaldi, Masi e Banfi. Dopo la laurea tornai in Italia, mi iscrissi a un master sul marketing del vino, diventai sommelier e iniziai a lavorare per un imbottigliatore. Oggi lavoro per un’azienda che ha come obiettivo quello di comunicare il vino al meglio e mi occupo di comunicazione digitale e di marketing nel settore enologico. Ma il vino è sempre il mio posto sicuro. Dove sento di potermi esprimere liberamente. 

Il tuo abbinamento cibo+vino preferito?

Pizza e lambrusco, senza ombra di dubbio.

L’abbinamento che invece piace a tutti tranne che a te?

Ostriche e Champagne. Quando mangiavo pesce, le abbinavo con il Muscadet sur lie. Sono una grande fan degli abbinamenti territoriali.

Il vino è un ottimo pretesto per…

Viaggiare, conoscere se stessi, conoscere nuove persone, fare sport tutti i giorni, mettersi in discussione, leggere, studiare, mangiare, insomma, vivere.

giulia ciampolini guida galattica enostappisti newsletter vino

La domanda più strana che hai ricevuto dalla community enostappista?

Negli anni ho scoperto che gli enostappisti e le enostappisti sono persone molto attente e le loro domande di solito sono di approfondimento sugli argomenti trattati nella newsletter o consigli su vini da comprare. Invece, non potrò mai dimenticarmi quello che mi disse una ragazza che conoscevo poco, ma che, venne fuori per caso, era appassionata di vino e leggeva la mia newsletter. È stato durante un momento abbastanza difficile, ero molto stressata per il lavoro e un infortunio che mi aveva tenuto lontano dal box di crossfit per un po’; non dico che volessi smettere di scrivere, ma ero molto affaticata e mi domandavo spesso che senso avesse la mia newsletter. Un giorno, parlando con una ragazza è venuto fuori che non si è mai persa un episodio della Guida, sin dal primo che ho pubblicato. Mi ha scaldato il cuore. Ho pensato che, se esiste un senso al pubblicare questa newsletter, sta tutto lì, nelle persone che ci sono dall’altra parte e che mi leggono.

Un consiglio che daresti alle persone che ti stanno leggendo in questo momento?

Non abbiate paura di fare domande: al sommelier dell’Esselunga, all’enotecario sotto casa, a Google, ma anche a voi stessi e voi stesse: ascoltatevi, fidatevi del vostro gusto personale e diffidate invece dei dogmi. La chiave per un buon abbinamento, la risposta alla domanda fondamentale dell’universo del vino, sta tutta qui.

La prossima puntata della Guida Galattica per Enostappisti sta per uscire, parla anche di Vite e ci si iscrive QUI. Oppure potete seguire Giulia su Instagram, dove la trovate come @ciampovini

bere da sole donne come fare

Tavolo per uno: bere da sole si può e perché è un’esperienza che dovresti provare

Un calice di vino in solitaria è uno dei grandi piaceri della vita, aumenta l’autostima e ci insegna a godere della compagnia di noi stesse. Ma per molte donne bere da sole è ancora un tabù

Perché non riusciamo a bere da sole? Secondo le persone che ci seguono su Instagram, il motivo per cui le donne fanno fatica a godersi un calice di vino in solitaria è perché temono di essere importunate o che stanno compiendo il primo passo verso l’alcolismo. Per la maggior parte delle persone che hanno risposto al nostro sondaggio, poi, bere è un’attività sociale e il vino, in particolare, è associato ai momenti in famiglia, con le amiche o con partner. Facendo qualche ricerca, abbiamo persino scoperto che per alcune persone mangiare e bere da sole è una vera e propria fobia, al pari dei ragni e delle altezze. Ma che dire invece di quelle volte in cui godersi il proprio bicchiere in solitaria, proprio come mangiare, fare sport, andare al cinema o viaggiare da sole, offre un’opportunità di concentrare l’attenzione solo ed esclusivamente su noi stesse, su come stiamo, su come ci stiamo godendo il momento e anche su quello che stiamo bevendo? A questo punto viene da chiedersi se non siamo finite, di nuovo, in quel meccanismo per cui – poiché pensare al benessere delle altre persone e la cura come vocazione biologica sono parte della nostra educazione come donne nella nostra società – ogni volta che ci concediamo di metterci al centro, finiamo per sentirci in colpa così tanto da smettere di desiderare di farlo. Anche lo sguardo dall’esterno ne è intriso e il pregiudizio secondo cui “le donne bevono solo per darsi un tono” è andato in onda al Tg2 soltanto una manciata di mesi fa a rafforzare l’idea che fare cose da sole non è per noi. A meno che non si tratti di crescere figli, curare genitori anziani e lavare i sanitari del bagno, tutti compiti di cui continuiamo a occuparci in esclusiva.

Birra affinata in barrique esauste con tagliere di formaggi che ho ordinato durante il mio viaggio in solitaria ad Amsterdam

Fare cose da sole aumenta l’autostima, ci fa sentire più consapevoli e forti e ci insegna a godere della compagnia di noi stesse

Andare al cinema, uscire a cena, fare un viaggio e sì, perché no, anche bere qualcosa, a casa o fuori da sole ha incredibili vantaggi: aumenta l’autostima, ci fa sentire più consapevoli e forti e ci insegna a godere della compagnia di noi stesse. Lo scopre rapidamente chi ci prova: riappropiarsi di questi spazi e tempi che abbiamo sempre pensato di dover abitare in compagnia è un modo straordinario per prenderci cura di noi stesse. Banalmente perché in quei momenti esistiamo solo noi e, senza dover necessariamente usare un libro o il nostro telefono come barriere nei confronti del mondo esterno, finalmente possiamo dedicarci tutta l’attenzione che di solito tendiamo a dare (prima) alle altre persone. Cenare fuori da sola o versarti un calice di vino, oltre a essere una forma di cura di sé, è anche un modo per trarre il massimo della soddisfazione da un’esperienza: l’ambiente, i sapori, gli odori, le consistenze, i suoni attorno a noi sembrano espandersi.

Non si è mai sentito di un uomo che fa tutte queste storie quando tornato a casa dal lavoro si apre una birretta e si mette sul divano

Senza qualcuno da intrattenere, possiamo sederci con i nostri pensieri, osservare il mondo, degustare quello che abbiamo nel calice o persino – ed è il mio guilty pleasure quando viaggio da sola – ascoltare cosa si dicono le altre persone presenti nella stanza e, da quei brandelli di storie, immaginare le loro vite. E con il senso di colpa come si fa? Anzitutto, lo si riduce a quello che è: un riflesso di una società che ci vorrebbe solo appendici. Non si è mai sentito di un uomo che fa tutte queste storie quando tornato a casa dal lavoro si apre una birretta e si mette sul divano. Se vuoi tanto visitare un posto, ma non c’è nessuno che viene con te, non rinunciare, parti. Se sei in viaggio per lavoro e c’è un ristorante che vorresti provare, prenota. Se quando stai rientrando dal lavoro vedi un’enoteca carina e ti viene voglia di fermarti per un bicchiere di vino prima di tornare a casa, fermati e ordina un bicchiere di vino. Questo non fa di noi delle perditempo. Né delle alcolizzate (a meno che non vi rendiate conto che utilizzate l’alcool per sostituire altro, allora in questo caso, vi consigliamo di chiedere aiuto*). Siete solo donne che hanno voglia di vivere, bere, di mangiare, di viaggiare, di passeggiare. Da sole. Ed è ora che iniziano a normalizzare i nostri desideri.

Uscire da sola a passeggiare è una delle mie attività preferite

5 consigli per provare a bere da sola (senza sensi di colpa)

Iniziare può però non essere facile. Abbiamo stilato una lista di cinque consigli se vuoi provare a bere da sola (ma possono valere anche se vuoi viaggiare, andare al ristorante, passeggiare o guardare un film in solitaria).

  • Prima volta da sola? Procedi un passo alla volta – Se non l’hai mai fatto prima, è più facile se scegli un posto a te familiare o a te vicino. Prima di ordinare un Frozen Magarita in una piscina a Dubai, ci sono stati tanti altri viaggi e bicchieri più vicino a casa. Ecco, iniziare a bere da sola nella comfort zone del tuo soggiorno o di un locale che già frequenti abitualmente, rientra perfettamente nel senso di questo consiglio.
  • Prepara la tua esperienza in anticipo – Su internet si trova tutto. Se vuoi uscire a bere qualcosa mentre sei in vacanza o mentre rientri dal lavoro, puoi cercare online il posto che ti ispira di più. E magari trovare già un’alternativa in fase di pianificazione, renderà più facile da un lato tenere a bada quel mix di ansia ed eccitazione che si prova durante le prime volte e dall’altro gestire la possibilità che il posto potrebbe essere pieno o chiuso.
  • Decidi dove vuoi sederti – Un tavolo appartato può essere la scelta giusta se vuoi concentrarti su quello che stai bevendo. Se invece stare da sola in mezzo alla gente ti intimidisce, puoi chiedere di sederti al bancone: sarà interessante vedere all’opera chi prepara i drink e potrai sempre scambiare qualche parola con lo staff qualora il non essere abituata a trascorrere del tempo da sola ti potrebbe far sentire a disagio.
  • Fai quello che ti senti di fare – E non quello che faresti di solito. Ascoltati e goditi la tua compagnia e se sai che per goderti appieno un bicchiere di vino, per esempio, ordinare un piatto in abbinamento o leggere un libro sono una buona idea, ordina del cibo o tira fuori il libro dalla borsa.
  • Vai via quando hai voglia – Questa è un’esperienza che stai facendo per te. Se senti di volertene andare, chiedi il conto oppure semplicemente svuota il bicchiere nel lavandino e passa ad altro. Se il motivo per cui non bevi da sola a casa è perché non finiresti la bottiglia da sola e non ti va di sprecare il vino al suo interno, dotati di un tappo sottovuoto che funzioni.
Dubai, piscina e un Frozen Margarita

Infine, ti lasciamo anche qualche link utile per provare a fare da sola altre cose come viaggiare, qui il Gruppo Facebook delle donne italiane che viaggiano da sole, oppure camminare, qui sempre il Gruppo Facebook dedicato. Se conosci altri gruppi o community di donne che amano fare cose da sole e che condividono consigli, itinerari o altro, segnalaceli: sarà bello creare una lista di indirizzi utili per riappropiarci tutte insieme di questi nuovi spazi di libertà (individuale e per tutte).

* se senti di aver bisogno di aiuto perché temi di aver sviluppato una dipendenza da alcol, puoi rivolgerti ai servizi per le dipendenze presenti sul tuo territorio. Oppure contattare il numero verde del Ministero della Salute (trovi maggiori dettagli qui).

ottavia mapelli talea

Regalo occasioni ai sogni che non sai di avere

Ottavia Mapelli è una Travel Designer, amante delle piccole cose e delle grandi storie. Per lavoro regala alle persone occasioni di crescita attraverso i sogni che non sanno di avere. Ottavia è astemia, ma ama il vino come espressione di una terra e delle genti che la abitano. La sua è la seconda storia di Talea

Diciamo spesso che il vino è un ottimo pretesto. Per conoscere persone nuove, per svoltare una giornata, per imparare la storia e gli usi di un territorio, per insaporire il risotto (sì, siamo sincere, anche per questo), per condividere parti della nostra vita e così renderle più leggere, per viaggiare grazie ai profumi e ai sapori che ci intrigano dal bicchiere. La seconda storia di Talea è quella di Ottavia Mapelli, Travel Designer, amante delle piccole cose, del verde e delle grandi storie. Per lavoro regala alle persone occasioni di crescita attraverso i sogni che non sanno di avere. Ama scrivere, ha girato l’Italia in bicicletta, doveva finire negli Stati Uniti, ma poi ha fondato un Tour Operator per viaggi a piedi. È astemia, ha una grande passione per il caffè, ma ama il vino perché anche per lei è un pretesto per conoscere davvero una terra e le genti che la abitano. L’abbiamo incontrata che è appena tornata a vivere in Alta Brianza dopo quasi dieci anni a Firenze: ha lasciato il porto sicuro di quella che era la sua casa e il suo posto fisso e ha appena iniziato la sua avventura come freelance insieme al suo cane, un levriero di nome Finn, come l’avventuriero di Mark Twain.

Ottavia, se dovessi raccontare il tuo viaggio, quale sarebbe il punto di partenza?

Non sono una persona che viaggia da tutta la vita. Da bambina facevo piccoli viaggi insieme ai miei genitori – Toscana, Liguria, Piemonte – ma sono molto grata perchè hanno sempre cercato di stimolare la mia curiosità ed educarmi al bello in ogni sua espressione. Da allora, viaggiare è per me una rivelazione. In quello che considero il mio primo viaggio da adulta, un lungo giro in bici attraverso l’Italia da Milano a Santa Maria di Leuca, mi sono ritrovata. Quello che mi si è rivelato è un Paese molto meno grigio di come me lo immaginavo. Viaggiare mi aiuta a non sentirmi sola e che anzi viviamo un po’ tutti la stessa vita, sogniamo e vogliamo le stesse cose, anche se abitiamo in posti diversi. Sentire il Catalano e pensare al tuo dialetto, scoprire che i briganti che popolavano i tuoi boschi altrove si chiamano in un altro modo, ma compivano le stesse gesta; vedere al collo di una guida giordana la stessa collana che da sempre indossa mia mamma. Questo è forse quello che amo di più, le piccoli grandi rivelazioni che svelano quanto siamo tutti legati.

Il tuo lavoro è fare la Travel Designer. Ci racconti di cosa si tratta?

Più che a un ruolo, mi piace pensare di essere al centro di un piccolo laboratorio di viaggio. Per le persone che si affidano a me creo viaggi da zero, costruendo un itinerario sulla base dei loro sogni, desideri e aspettative, oppure lavoro su un itinerario che hanno già pronto ma che non li soddisfa, capendo insieme a loro cosa può essere migliorato, a cosa si può “infondere meraviglia” perché arrivi a soddisfarli completamente. Il tutto senza appiattire la complessa, ricchissima identità dei luoghi ospitanti.

Perchè amiamo così tanto viaggiare?

Le persone viaggiano per i motivi più semplici a cui riusciamo a pensare: per divertirsi, staccare, vedere nuovi luoghi, riposarsi. Un viaggio non deve necessariamente essere un’esperienza rivelatoria o trasformativa. Sempre più persone, però, si mettono in viaggio perché desiderano – coscientemente o meno – cambiare qualcosa in sé stessi o nella loro vita, perché si convincono che se ti muovi, qualcosa succede sempre. Viaggiamo per imparare o realizzare altrove qualcosa che non riusciamo a trovare dove abitiamo; per nutrire a fondo una passione, sentirsi utili, provare qualcosa che scuota ed emozioni, inseguire un’inspiegabile nostalgia per luoghi non vissuti. Per sentirsi parte di una comunità, sfidare un proprio limite, cambiare una prospettiva che percepiscono come limitante. Per trovare un luogo più comodo e accogliente, anche solo per qualche giorno. Ricordo una volta un signore di 80 anni che non aveva mai visto l’Italia dopo averla sognata e studiata per tutta la vita perché aveva creato una lista di luoghi ed esperienze, per altre persone. E io ho fatto in modo che le vivesse tutte. Mi ha detto che non si era mai sentito così felice in tutta la sua vita. Per me questa è una consapevolezza potentissima.

Stiamo entrando nell’ultimo mese di primavera, il momento in cui la natura rinasce: hai mai avuto un’esperienza di rinascita?

Direi che, forse come tutti, ho vissuto tante piccole rinascite, alcune più difficili di altre.  L’ultima è sicuramente la scelta di tornare in provincia dopo otto anni trascorsi a Firenze e, contemporaneamente, lasciare in parte il mio lavoro da dipendente per dare vita al mio progetto freelance. Un rientro al nido, la casa a cui avevo giurato non sarei tornata. Sono cambiate tante cose tutte insieme – nuova quotidianità, nuovo lavoro, nuova casa, nuova macchina, nuova terra, nuovo compagno di vita, il mio cane Finn – e come sempre le ho affrontate senza forse gustarmi a fondo la consapevolezza che stesse iniziando un nuovo capitolo della mia vita. Sempre io, eppure tutto era profondamente diverso. Per otto anni ho vissuto in un certo modo, con abitudini e piccoli rituali, come passeggiare lungo l’Arno, quando avevo bisogno di pensare e dove ho trovato il coraggio per farla accadere questa rinascita. La prima mattina della mia nuova vita temevo di provare nostalgia e, invece, di tutte quelle cose così importanti non sentivo più il bisogno. Ne ho subito adottate di nuove, guardandomi intorno per capire come riempire il mio nuovo spazio. In una delle mie citazioni preferite, Hemingway dice: “trapiantarsi è necessario all’essere umano come ad ogni altra cosa che cresce” – ecco, io mi sono sentita trapiantata. Ora mi toccava solo crescere. 

Il segnale che la pianta della vite si sta risvegliando è quello che viene chiamato il pianto: è così anche per noi, secondo te, per rinascere bisogna piangere?

In Toscana, in effetti, si dice “piangere come una vita tagliata” – una delle tante espressioni che ho imparato quando mi sono trasferita a Firenze. Per me, l’atto stesso di piangere ha in effetti rappresentato una bella rinascita, perché piango molto raramente e davanti alle lacrime altrui, generalmente, provo irritazione o disagio. In questo mi ha molto aiutato la terapia. E l’ultima sera prima di lasciare Firenze ho pianto per ore – un pianto disperato e liberatorio, che non sembrava finire mai, in cui ho liberato tutto quello che ancora doveva rimanere in quel bellissimo capitolo ormai finito della mia vita. 

Il vino per te è …

Il vino per me è un bellissimo mistero a cui tento di accedere più che posso. Non posso, infatti, bere vino; ho una condizione che mi impedisce di bere (o assaggiare) più di due sorsi di qualsiasi bevanda alcolica senza stare male. Ho deciso quindi di esplorarlo da qualsiasi altra angolazione possibile. Nel mio lavoro, mi è capitato di sviluppare wine tour, così, dato che non posso berlo, ma volendo cercare di conoscere il prodotto al meglio delle mie capacità, ho iniziato a studiare, esplorare, soprattutto parlare e fare domande a chi il vino lo produce. Quando visito una cantina, mi faccio raccontare la storia, parlo e fotografo le persone, mi faccio spiegare come i fattori ambientali specifici del territorio influenzano le caratteristiche del vino; osservo gli acini e le foglie, chiedo quali sono le etichette preferite e perchè, di che materiali sono le botti, come questo andrà ad impattare le note aromatiche. Guardo la grafica delle etichette. E naturalmente mi affido a chi ne sa ben più di me, trovo produttori e sommelier di fiducia a cui chiedere. Mi piace l’idea di aver creato con il vino un rapporto che va oltre il mio non poterlo, in effetti, consumare. E quando proponi una cantina, la racconti e inserisci nella struttura del tour in tutta la sua complessa identità umana e terrestre; c’entra il gusto, certo, ma anche il design, le persone, l’idea, la terra, il territorio. 

Su Instagram ogni mese proponi un amuleto di viaggio, piccoli mantra per il mese a venire o una sorta di piccolo oroscopo del viaggiatore o della viaggiatrice: ce ne lasci uno, per noi e per chi sta leggendo la nostra chiacchierata?

Gli amuleti di viaggio hanno la forma di immagini che mi ispirano e che mi fanno pensare al mese in arrivo. Li pubblico insieme ad alcune frasi, consigli poetici, indicazioni oracolari, piccoli mantra per il mese a venire. Realizzarli è un esercizio che mi diverte e stimola la parte più intuitiva, rituale e astratta di me stessa, la stessa a cui attingo quando leggo i tarocchi. Se dovessi trovarne uno per voi, donne di Vite, mi viene da pensare che la talea è una parte di pianta che sa rimettere radici, trasformandosi in qualcos’altro – una parte che diventa di nuovo un tutto. In musica, si parla di Talea quando lo stesso schema ritmico è ripetuto per tutta la composizione; succedeva nelle composizioni sacre, ma anche nell’ipnotica, gioiosa musica indiana: una sorta di mantra in musica. Mi sembra, quindi, che la chiave qui sia nell’invincibile capacità di riprodursi, nel ripetersi eppure creare qualcosa di nuovo. È un esercizio di perseveranza e coraggio – si cresce e ci si propaga creando nuovi modi per esprimersi, abbandonando parti forse ferite, forse pesanti. Arricchendo nuovi suoli. Vi auguro un futuro che sia una continua talea: trapiantarsi, sbocciare, sempre fedeli alla parte di noi stesse che ci nutre nel profondo. 

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La sorellanza ci salverà: abbiamo parlato con Isabelle Perraud, la vignaiola francese che ha dato il là al #MeToo nel mondo del vino (anche italiano)

La prima storia di Talea è quella di Isabelle Perraud, fondatrice dell’Associazione Paye Ton Pinard

Questo articolo, come tante altre cose di questi tempi, nasce da una storia su Instagram. E da un articolo uscito su Repubblica che riporta i dati delle aziende vinicole che in Italia sono guidate da donne: spoiler, soltanto il 12,5% ha un Amministratrice Delegata. Mi ha fatto pensare che la storia delle donne nel mondo (e in generale) sia una specie di montagna di Sisifo: ogni mattina una donna si sveglia e sa che dovrà trasportare la sua personale roccia fino in cima, per poi ricominciare da capo l’indomani. Perché non è vero che il mondo del vino è un mondo di uomini, lo sono solo le posizioni di potere al suo interno. Le donne, infatti, in vigna e in cantina ci sono sempre state, lo si vede dai reperti conservati nel Museo del Vino di Torgiano e lo si trova anche nelle storie delle nostre artigiane dell’uva, abituate sin da bambine a fare la loro parte durante la vendemmia come un qualsiasi altro membro della famiglia.

Come ci siamo arrivate? Dapprima furono la rivoluzione industriale e l’introduzione del lavoro salariato a rompere la continuità tra la casa e il lavoro, distinguendo i ruoli all’interno della famiglia come li conosciamo oggi: le donne a casa e gli uomini fuori, nell’industria, vinicola compresa, senza che però le donne abbiano mai smesso di occuparsi delle vigne e della cantina. E poi la questione del potere, trasversale a tutti gli ambiti delle nostre vite (hai detto forse, cultura patriarcale?), a cui abbiamo accennato prima: il mondo del vino ci sembra a predominanza maschile, perché gli uomini ne occupano ancora per la maggior parte l’immagine pubblica. Per questo, quando la FIVI ha aggiunto nel nome del suo storico Mercato anche “delle Vignaiole” e non più solo “dei Vignaioli” indipendenti, abbiamo esultato tutte (e anche una parte di tutti, ne sono convinta). Del valore della rappresentanza, della sorellanza e dell’importanza di dare voce alle donne di questo settore, laddove sono ancora poco visibili, abbiamo parlato con Isabelle Perraud, vignaiola francese e fondatrice dell’Associazione “Paye Ton Pinard”, impegnata a dare voce alle donne che subiscono molestie in cantina mentre tutti si girano dall’altra parte.

Isabelle Perraud, ti definisci “vignaiola naturale e femminista”: come e quando nasce Paye Ton Pinard?

Paye Ton Pinard nasce come account Instagram nel settembre 2020. Sin dalla sua nascita volevo dare alle donne del mondo del vino uno spazio di parola, aperto, responsabile, accogliente, consapevole, sulle questioni del sessismo e della violenza sessuale di cui potevano fare esperienza nel loro lavoro. E rompere l’isolamento su queste questioni. L’associazione è stata fondata nel mese di agosto 2023, per essere un vero collettivo dove ogni donna può impegnarsi in prima persona se lo desidera.

“Più forti insieme” si legge nella caption di questo post Instagram di Paye Ton Pinard

Il nome Paye Ton Pinard, che letteralmente significa “paga il tuo vinaccio”, fa riferimento al blog dell’attivista Francese Anaïs Bourdet “Paye Ta Shnek”, che dal 2012 per più di dieci anni, ha condiviso più di quindicimila storie di donne vittime di molestie di strada. Ed è quello che hanno fatto Isabelle e le altre persone che lavorano attivamente nell’associazione: “Siamo dodici e due tra noi sono uomini” mi dice orgogliosamente Perraud che quest’anno, per la sua attività, si è trovata al centro di una bufera mediatica, denuncia di diffamazione compresa, conseguente alle testimonianze da lei raccolte e che riguardavano un produttore di vino francese. Oltre alla condivisione delle storie, Paye Ton Pinard è a disposizione per dare consulenza legale laddove necessario e fare educazione sensibilizzando donne e uomini partecipanti ai vari eventi del mondo del vino. “Abbiamo creato gruppi di lavoro per scrivere una carta che intendiamo far firmare ai professionisti e alle professioniste del vino che si impegnano contro le molestie e in favore della parità tra i generi. Un altro progetto importante riguarda il sito web: vorremmo che fosse un luogo dove ogni donna che ha bisogno possa trovare tutte le informazioni“. Non sono solo le vignaiole francesi a essersi rivolte all’associazione di Perraud e ad aver aggiunto le proprie voci a questo #Metoo del mondo del vino. Anche l’agronoma e vignaiola italiana Lisa Saverino ha affidato la sua testimonianza all’associazione attraverso un post Instagram dove racconta delle molestie subite nelle cantine dove ha lavorato tra la Sicilia, la Toscana e Parigi e dove dice “Italia e Francia, la stessa lotta”. Nel nostro Paese, però, non ci sono dati che raccontano gli episodi di sessismo quotidiano che costellano la montagna di Sisifo delle donne del vino italiane (come quella della sommelier che nell’estate 2022 si vide imporre la gonna come divisa di lavoro per ragioni estetiche). Un passo in avanti in questo potrebbe essere il progetto #TUNONSEISOLA dell’Associazione Nazionale “Le Donne del Vino” ideato per promuovere iniziative di formazione, informazione e sensibilizzazione sulla violenza di genere, presentato a fine gennaio 2023, dopo il femminicidio della donna del vino Marisa Leo.

Che cos’hanno in comune le storie che vi arrivano, da Instagram o da altri luoghi?

Ci sono molte violenze di genere e aggressioni sessuali. Prima di tutto, le donne che le condividono con noi hanno bisogno di sentirsi dire che stiamo ascoltando, anche più tardi se non hanno la forza di parlarne subito. È importante che si sentano in una relazione di fiducia. È importante dire loro che crediamo a quello che raccontano. E soprattutto non essere mai giudicanti. Poi, forse, il fatto di aver parlato, di aver messo in luce una situazione traumatica, la farà avanzare nel suo processo di ricostruzione. Forse presenterà denuncia. Forse no. Dobbiamo accettare la sua decisione. E accompagnarla al meglio.

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Il logo dell’Assocazione Paye Ton Pinard (illustrazione di @totorlillustree)

Nei tuoi discorsi citi spesso la parola sororitè, sorellanza, perché?

La sorellanza è importante perché si possa andare avanti. Ci hanno fatto credere fin troppo che non possiamo contare le une sulle altre.

Una frase come “non c’è nemica peggiore per una donna di un’altra donna”, ci fa sentire ancora più sole…

Sono convinta che solo una donna può capire un’altra donna su questi argomenti. Bisogna potersi sentire sicure. Paye Ton Pinard è uno spazio di fiducia. Penso che la cosa più importante, per una donna in questa situazione, sia parlarne. Liberare la sua parola, farla valere. Raccontarla anche al suo o alla partner, a un amico, un’amica, a qualcuno di fiducia: è un primo passo per non essere sola.

Illustrazione in copertina di @pauline_dupin_aymard per l’Associazione Paye Ton Pinard.

Talea è il progetto editoriale di Vite Storie di Vino e di Donne dedicato alle storie che vogliamo condividere perché portino frutto. Questa è la prima, puoi leggere le altre qui.