Siamo state ospiti a Podere Conca per una passeggiata tra viti e ulivi e una degustazione con le cicale in sottofondo. Il racconto del nostro #viteincantina a Bolgheri
Per arrivare a Podere Conca devi lasciarti il mare alle spalle e seguire il suono delle cicale. Prendi la via delle Ferruggini, i filari sulla destra, i cipressi sulla sinistra, il vento che accarezza la schiena e garantisce alle viti che sono coltivate in queste zone una protezione naturale contro le malattie fungine che possono intaccare la pianta. Il terreno, man mano che si sale verso la strada Bolgherese, diventa sempre più scuro – e io, che sto per iniziare il terzo livello del corso di sommelier, so che terra scura significa argilla e argilla significa vini di grande struttura. Ma non sarà questa a colpirmi nei vini di Silvia Cirri, quanto invece quell’elemento – un blend particolare, un fiore inventato – che le fa brillare di arguzia gli occhi azzurri mentre ce lo racconta.
Se giri a destra, qualche centinaio di metri dopo, la prima cosa che intravedi sono i battenti rossi di Podere Conca, il casale di fine ottocento che la famiglia di Silvia ha ristrutturato facendolo diventare la casa di villeggiatura della famiglia. “Mio padre ha deciso di lasciare le finestre rosse”, racconta Silvia mentre facciamo il giro della casa, “perché per la gente della zona questa casa è sempre stata un punto di riferimento. Quando si vedevano per darsi appuntamento, si dicevano l’un l’altro, ci troviamo alla casa con le finestre rosse, e così mi piace che sia ancora oggi per tutte le persone che desiderano venirci a trovare”.
Una passeggiata tra viti, ulivi e rose cremisi
A Podere Conca si fa, da sempre, sia vino sia olio. “Quando abbiamo deciso di piantare la vigna nei terreni attorno al podere, abbiamo deciso di mantenere queste piante di ulivo perché sono centenarie”. E le rose? “Le rose sono le nostre sentinelle, quando arriva la peronospora – un fungo che attacca la vite – perché le foglie della rosa ne soffrono per prime e così possiamo intervenire preventivamente”. Quest’anno, complici le piogge di giugno, la peronospora e il batterio della flavescenza dorata sono le principali cause della ruga di apprensione che a Silvia si disegna in mezzo agli occhi mentre me ne parla, all’ombra del porticato. Mi spiega che a Podere Conca, dove l’agricoltura è da sempre praticata in regime biologico, si cerca di combatterli tra rimedi naturali e una cura attentissima di ogni pianta. Purtroppo, nonostante gli sforzi di tutte le donne di Podere Conca, quest’anno a causa della peronospora la produzione sarà del 50% inferiore rispetto a quella dell’anno scorso. “L’agricoltora sa che questo è uno dei rischi di chi fa questo mestiere”, racconta Silvia sollevando le spalle, “speriamo che la qualità del vino sarà sempre buona. Altrimenti” aggiunge con saggezza “vedremo il da farsi. Noi, il consorzio, tutte le cantine qui intorno”.
Dalla vigna al bicchiere, un vino, un fiore
Ci sediamo all’ombra sotto al portico, le cicale in sottofondo e la brezza che porta il profumo del mare. Una parte dei vigneti è qui, quella da cui si fanno i vini di maggiore qualità, e una parte è due kilometri più in basso, verso il mare alle Ferruggini, dove il terreno è più minerale e sabbioso e per questo si coltivano le uve bianche soprattutto. Mentre faccio girare il vino nel calice per la degustazione, invidio a Silvia e alle donne di Podere Conca quel senso di spensieratezza che abbiamo colto appena siamo entrate nell’aura della casa con le finestre rosse. E in quella della sua proprietaria. Silvia è una signora calma e gentile, con una grande tenacia e una brillante intelligenza. Te ne accorgi mentre parli con lei, che ha un’opinione informata su tutto, gesticola pochissimo – al contrario di me – e che ha fatto della sua passione tardiva per il vino una materia approfondita di studio. Lei, che fa il medico in un grande ospedale di Milano e che è abituata alle dinamiche della sanità Lombarda, si è avvicinata al mondo del vino per passione e in punta di piedi: come sommelier all’inizio, come artigiana dell’uva e come imprenditrice enoica dopo. Il suo tocco – il tocco dell’artigiana e il tocco dell’imprenditrice, ma anche un po’ il tocco della matriarca – si vede dappertutto, dalla disposizione dei tavoli e dei cuscini sotto al portico durante la degustazione, alla scelta dei prodotti da abbinare ai vini (il crostino di pane integrale, con formaggio fresco, pomodoro sott’olio e cappero, con olio di Podere Conca, è perfetto con il 196), ma soprattutto nella scelta delle persone, tutte donne, a cui Silvia ha dato, prima di tutto, fiducia.
Il tocco di Silvia, il suo progetto enologico e imprenditoriale, diventa sempre più chiaro, nella nostra conversazione e nel corso della degustazione. Ha le idee chiare, Silvia, e ha individuato da tempo i mezzi per realizzarle. Nei vini, dai blend coraggiosi – come l’Agapanto, dove il tradizionale rosso di Bolgheri diviene una piacevole sorpresa perché il Cabernet Sauvignon e il Cabernet Franc vengono uniti al Ciliegiolo e per questo diventa subito il nostro preferito (ahinoi, nel cofanetto al momento non c’è); oppure l’Elleboro, un’alternativa coraggiosa al noto vermentino toscano, un mix di Viognier, Chardonnay e Sauvignon blanc – e nelle etichette, su cui sono raffigurati i fiori che sua madre amava piantare e avere attorno: l’Elleboro, la rosa di natale, l’Agapanto, che per tradizione è simbolo dell’amore, i tulipani del 196 che ricordano le tulipe di ceramica dove viene fatto affinare il Cabernet Sauvignon in purezza che compone questo vino, e infine l’Apistos, il fiore ideale, quello che a Silvia piacerebbe coltivare, simbolo di un vino che è ancora un esperimento, che vuole rompere con la tradizione del super tuscan, ridefinendo il modo di fare il vino a Bolgheri in quel modo che solo chi conosce a fondo un procedimento può innovare: partendo dalla conoscenza, verso, se tutto va come previsto, la rivoluzione.